L’affresco
Molto ben realizzato e… diciamo la verità, una rinuncia non avrebbe significato dare ancora più soddisfazione alla Parca Funesta?
Non è bello pensare che almeno in questo suo secondo ferale proposito siamo riusciti tutti insieme a gabbarla, la Maledetta?
Mi accingo a scrivere con un sentimento profondo, insolito e incerto al tempo stesso perché l’emozione è ancora intensa.
Albino ci ha lasciati lo scorso 18 agosto e nonostante lo trattenga la massima lontananza il suo ricordo è molto vivo; io continuo a vederlo là, nella sua casa, che disserta piacevolmente di smalti e di cotture e poi ancora nel periodo buio con Angela che gli corre appresso amorosa, e poi lo vedo, e mi pare ieri, quel giorno felice in cui ci incontrammo per caso all’Imbarcadero di Laveno; era un mattino di tre anni fa e (questa ve la racconto) Albino stava aspettando il traghetto per andare con la moglie Flora dalle parti di Stresa a consegnare un suo pezzo in ceramica.
Era una di quelle giornate straordinarie e rare in cui tutto sembra andare per il verso giusto.
Il suo sorriso, da qualche tempo un po’ vago e triste, pareva quel giorno ritrovato. Sollevò di poco i giornali che avvolgevano la ceramica e mi mostrò un angolo dell’opera che raggiava in tutta la forza del suo colore.
Nel gran fiume della vita egli pareva quella mattina procedere senza un’oscillazione, spartendo scherzosamente le onde avverse, quasi contasse su una segreta promessa degli dei, a noi sconosciuta. E mentre il vento soffiava portandoci il profumo del lago mi si avvicina e dice:
“Sai, Palazzi, io faccio un gran bel mestiere…. Ah… la ceramica! Il fuoco…! Il fuoco ti dà proprio delle belle soddisfazioni!”
Ebbene, non erano trascorsi neppure dieci giorni da quel felice mattino all’Imbarcadero quando, incontrando un comune amico, vengo a sapere che Albino è caduto in un grave stato depressivo (da cui non riuscirà più ad uscirne).
Nella vita, ahimè, viene per tutti il giorno fatale in cui l’animo giovane e spavaldo non basta più e la strada si fa stretta, malagevole e anche irta di dispiaceri e intorno non più i bagliori del fuoco amico ma gli estenuati vapori del braciere e all’orizzonte solo nuvole nere.
Bando comunque alle tristezze: oggi, dall’evento che andiamo a inaugurare, possiamo trarre molta soddisfazione perché Albino Reggiori vede concretizzata una sua vecchia aspirazione e cioè quella di lasciare, proprio qui, ad Arcumeggia, una traccia della sua arte.
Arcumeggia è un placido eremo, patriarcale e insieme artistico, fatto sì di pietre, di sassi e di calcina, ma anche di sogno e di meraviglia e in questa occasione Reggiori vi approda quasi magicamente, con l’eleganza rigorosa di chi detta dall’alto.
Desidero spendere ora qualche parola sull’arte di Reggiori, anche se critico d’arte non sono.
Per molti, soprattutto per i non addetti, la prima curiosità è di questo tipo: più pittore
o più ceramista?
Vecchia storia: nonostante abbia seguito per lungo tempo il suo impegno non mi sento di fornire una risposta all’interrogativo. E tanto meno ci aiuta l’Albino che, sulla carta d’identità, alla voce “professione” fa scrivere “pittore-ceramista”. Reggiori era di Laveno, una scuola in prevalenza votata alla ceramica, il suo curriculum dice che la sua produzione in ceramica è piena di riconoscimenti. Più ceramista allora? Potrebbe essere. Ma Reggiori ha sempre nel contempo anche dipinto, e in modo superbo, e raccogliendo grandi soddisfazioni. Comunque ceramista o pittore, è il colore a giocare un ruolo fondamentale nei suoi lavori; l’effetto cromatico è quello che prima di ogni altra cosa ci “cattura”, non disgiunto da aspetti decorativi che trovano il loro momento di grazia nella rappresentazione delle sue inconfondibili cattedrali, opere che ci appaiono come coperte da una meravigliosa patina dei secoli e come tali destinate a non invecchiare mai. Sono affidate appunto al colore, ma anche realizzate in modo da apparire costantemente sospese tra la realtà e il sogno. Si, perché sempre si coglie in Reggiori una componente di sogno che, proprio da esse, traspare chiara, residuo di poesia e di ironia. Sogno in cui, con il passare del tempo, colpiva sempre più il fluire melanconico di segrete nostalgie, ricordi di cose lontane, illusioni e speranze svanite, echi di un passato che più non torna. Una tristezza vaga e impalpabile che diventava acuta, cosciente e dolorosa negli ultimi tempi tanto da condizionare il suo impegno artistico.
Anche le sue ceramiche non erano mai espressione di gioia e si portavano appresso una malinconia “antica” fino a diventare addirittura urne cinerarie; esse cercavano e trovavano la loro ragione artistica nella magia delle alte temperature, in quel, e rubo le parole ad Aldo Devizzi, “fuoco robusto […] che le trasformava in sostanza preziosa con caratteristiche uniche, praticamente irripetibili”.
Nella mostra di Arcumeggia troviamo poi esposto un tema che Albino ha sviluppato con passione e che, a mio parere, non ha ancora trovato una sua giusta valorizzazione: le Venezie.
Con quello stile tutto suo per cui, fra mille artisti, lo si riconosceva subito, Reggiori ci propone delle Venezie tutte particolari: non possiedono la manierata bellezza di un Guardi o di un Canaletto e tanto meno rievocano i tremolanti vapori della laguna tanto cari al Guidi. La Venezia di Reggiori è qualcosa di completamente diverso. Essa ci appare nella mitica lucente bellezza di chi si affida alla fantasia e alla meraviglia, che sono molle fondamentali dell’emozione estetica.
“Dimmi, dove siamo qui?”, mi diceva un’amica davanti ad uno di questi lavori
“A Venezia, che diamine!”
“Ma, dove in particolare?”
“Non c’è un “dove”, la Venezia di Reggiori è così, senza luogo e senza tempo”.
Eppure questa Venezia straniera, inafferrabile, sfuggente, triste e talvolta anche festosa, significa tensione, significa vita.
Non finisce mai di nascere, non si cristallizza mai.
“Non ti affascina l’idea?”
“Si, tantissimo!”

                                Alberto Palazzi Fra gli artisti che hanno onorato la terra varesina con la loro creatività...
Albino Reggiori occupa un posto di preminenza, per l’onestà concettuale, la coerenza del percorso, la trasparenza delle motivazioni, la capacità di assecondare l’ispirazione con tecniche in grado di esprimerla adeguatamente.
Puntiglioso e perseverante nella sua ricerca, circostanziata da valori fondanti e da una attenta riflessione sul senso della tradizione, che ha saputo costantemente rinnovare alla luce di propri profondi convincimenti, Reggiori non ha mai ceduto alle sirene del mercato, votato a convenienze commerciali più che a valori artistici. Comportamenti e valori del resto ben sottolineati dagli importanti riconoscimenti ottenuti.
Nelle sue opere mi ha sempre meravigliato il tensivo equilibrio fra la linearità dell’elaborazione mentale e l’ingegnosa manualità, che si trasfonde soprattutto nella sicurezza e profondità del segno e nelle nervature delle opere monocrome, oltre che nelle cattedrali gotiche, ostinatamente ripetute quasi a cercare nell’acutezza dell’iconografia protesa verso l’alto una estrema spiritualità rivelatrice.
Albino sapeva creare con grande umiltà, sempre pronto ad apprendere ed a capire. Una semplicità d’animo che poi nei suoi lavori si trasformava, dote tipica degli animi nobili, in grande e compiuta bellezza.
                                                                                                                    Ettore Ceriani
Settembre 2006.